Prostitute in rivolta - una bussola a forma di ombrello rosso

 tempo di lettura: 11’, 45’’

Il 17 Dicembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle/u sex worker. Le cose da dire sono tante, ma sicuramente ci sarà qualcuna/u/o più capace di me che potrà dirle. È di questa giornata, però, che voglio approfittare per parlarvi di un libro che vi sarà da strumento per non dover più ripetere alcune di queste cose che da sono tanto fondamentali quanto estenuanti da dover ribadire, soprattutto se non si presta loro orecchio. Oggi e per sempre è arrivato il momento di mettersi da parte e ascoltare.

[note sul linguaggio scritto dell’articolo: in linea con il linguaggio ampio adottato nel blog che priorizza il superamento del binarismo di genere, si utilizzano le desinenze -e/u/i (femminile, neutro, maschile); in riferimento al libro si utilizza -e/u con prevalenza del femminile]

“Prostitute in rivolta”, di Molly Smith e Juno Mac,


Edito e pubblicato nel Maggio 2022 da Tamù Edizioni è un libro che dovete tenere alla mano se vi interessano i diritti umani e un approfondimento chiaro sulla questione sfaccettata e stratificata del lavoro sessuale. In Italia una pubblicazione del genere non è inedita in quanto effettiva pubblicazione, ma è inedita l’opportunità tangibile che offre nel comprendere che quando si parla di sex work si parla soprattutto di diritti di migranti, si parla di povertà, di diritto alla casa, di frontiere, di violenza di genere istituzionalizzata e sistemica, di carceri e di polizia. 


Tamù edizioni ha impacchettato un lavoro eccellente con una cura impeccabile, dalla grafica alla traduzione meticolosa di Chiara Flaminio ricca di note a pie’ pagina - per dare proprio tutti gli strumenti di comprensione, di modo da non lasciare nulla indietro -, ma anche nel coinvolgimento per la prefazione di Barbara Bonomi Romagnoli (giornalista professionista freelance e autrice, fra i vari, di “irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio”, Editori Internazionali Riuniti, 2014) e Giulia Garofalo Geymonat (ricercatrice universitaria - ha scritto “vendere e comprare sesso tra piacere, lavoro e prevaricazione”, Il Mulino, 2014) e nella postazione di Ombre Rosse, collettivo bolognese di sex worker e persone alleate. Un progetto corale per parlare di una dimensione, quella del lavoro sessuale, dove corali sono tanto i problemi quanto le necessità di alleanze.

Anatomia dello stigma: sesso - lavoro - confini

“[...]Una sex worker può descrivere una brutta esperienza al lavoro come una violazione dei propri diritti lavorativi, come una violenza sessuale o più semplicemente come una giornata no. A prescindere, le testimonianze delle lavoratrici non sono dei simboli da destinare all'interpretazione delle femministe non sex worker, tantomeno all’interno di una campagna per la criminalizzazione della loro fonte di reddito.”

“Prostitute in rivolta” apre asfaltando tre cardini su cui tutte/u/i ci accomodiamo quando parliamo completamente a sproposito di lavoro sessuale: il sesso, il lavoro e i confini.


Tre concetti che sono l’uno dentro l’altro e che, come un gioco a livelli, risolvendo un tranello recuperi solo la chiave per passare al successivo. Proprio recentemente ho parlato di sessuofobia come bias sociale che annebbia la vista quando si cerca di districarsi nelle complessità che pesano sulle spalle delle/u sex worker che cercano di battersi per i propri diritti attraverso la propria voce. 


Lungi dal credere quindi che risolvendo i tabù inerenti al sesso si risolvino tutti i problemi del lavoro sessuale (i primi sono una dimensione troppo individuale perché questa, da sola, possa bastare a sollevare i secondi; dovremmo sempre ricordarci della differenza tra individuale e comunitario quando si tenta di cambiare lo stato delle cose): è utile smantellare la sessuofobia però perché così facendo ci si disfa di filtri di pudore e giudizio che altrimenti alterano e allontanano dal riconoscere le falle sistemiche. 


Se il sesso è una cosa sporca, sporca è chi il sesso lo fa; se sporca è chi lo fa, figuriamoci chi lo vende; chi lo acquista indubbiamente è complice di sporcizia, eppure mai alla stessa maniera. Sul terreno del sesso si giocano le partite di sovradeterminazione e astrazione della soggettività-sex worker che, col pretesto della lotta al patriarcato, della fine delle violenze di genere, viene deumanizzata e messa da parte al momento di discutere di soluzioni che possano migliorarle la vita; “per il suo bene” vengono scritte leggi che criminalizzano la sua esistenza, promosse anche da femministe anti-sex work sprovviste di aderenza a questa realtà, come dimostrato da più di un episodio riportato all’interno del libro.


In bocca ad alcune femministe “la prostituta” diventa simbolo della sessualità femminile per intero, della donna oggettificata dall’uomo patriarca, dunque affine alla condizione di tutte le donne. In questa maniera ci si illude che la punizione del patriarca sia la soluzione per tutte, sex worker comprese. Stranamente, però, questo incanto dialettico svanisce quando, abbandonando il piano simbolico, ci si immerge nelle complessità che vincolano la vendita della prestazione sessuale alla sicurezza, alla povertà sistemica e alle discriminazioni razziali e queerfobiche. 


Attraverso il tema del sesso si fa strada la violenza che lu sex worker collezionano da parte della società e che si concretizza nel tema del lavoro e del suo mancato riconoscimento in quanto tale. Quello che Smith e Mac dimostrano nel capitolo dedicato al lavoro è che non viene preso sul serio se si tratta di quello sessuale: violenze? Te le cerchi; mancanza di diritti? Certo, con un lavoro così!; tutele? Perché, te le meriti?


Le stesse identiche incrinature del sistema capitalista e lavorista di cui facilmente si riconoscono i pattern in qualunque altro ambito magicamente svaniscono sotto la pressione dello stigma che inchioda la/u sex worker a una condizione non solo precaria e pericolosa ma anche taciuta. Se il lavoro sessuale non è un vero lavoro, non ci sono diritti, non è possibile denunciare ma, d’altra parte, non ci sono mai davvero alternative: parlare di “vittime” e “nuovi schiavi” non ha ancora sortito alcun effetto reale, checché se ne pensi.


Sarebbe utile, per esempio, ripensare a una politica dei confini, proseguendo in questo modo: abolendoli. I contesti geopolitici nei quali trafficanti e gente troppo povera per viaggiare legalmente (tra spostamenti e burocrazia) si ritrovano è niente più che un ricatto istituzionalizzato tra la vita e la morte. Mentre le leggi bollano gli esseri umani tra chi è illegale e chi no, la morsa in cui ci si ritrova è quella che spinge a condizioni miserabili, dentro la quale si sviluppa una fetta del lavoro sessuale.


“[...] l’utilizzo acritico del termine tratta svolge il lavoro ideologico necessario a dare un senso a queste contraddizioni; nasconde il danno prodotto dalle politiche anti-immigrazione, ovvero il traffico, consentendo ai politici che le implementano di presentarsi come eroi anti-tratta.[...]”

“[...] Difendere la prostituta migrante significa difendere tutte le persone migranti: è l’archetipo della migrante stigmatizzata. Le frontiere sono state inventate per proteggersi da lei. Non può esistere solidarietà nei confronti delle persone migranti senza solidarietà nei confronti delle prostitute, proprio come non può esistere solidarietà nei confronti delle prostitute senza solidarietà nei confronti delle persone migranti. Le due lotte sono inestricabilmente intecciate.”

Una mappatura delle storie

“Prostitute in rivolta” procede approfondendo origini, sviluppi, illusioni, discriminazioni, vantaggi (quando ce ne sono) e svantaggi dei vari attuali modelli giudiziari e legislativi per tenere sotto controllo il lavoro sessuale.
La criminalizzazione parziale, la criminalizzazione totale, il cosiddetto “modello svedese” (o “nordico”), il regolamentarismo e la depenalizzazione totale vengono aperti, dissezionati, analizzati pezzo per pezzo, contraddizione per contraddizione, retorica dopo retorica per non lasciare più granché di dubbi riguardo la complessità e l’ampiezza dell’argomento.

“[...] Non esiste una versione progressista della criminalizzazione totale. Abusi quali pratiche poliziesche razziste, corruzione e violenze sessuali sono legate inestricabilmente alla vulnerabilità della sex worker che, una volta classificata come criminale, ha scarse possibilità di ricorrere alla giustizia.”

Per fare ciò ci vengono mostrati nomi, luoghi, accadimenti, testimonianze dirette di sex worker e attiviste; dopo aver letto queste pagine è davvero difficile restare su un discorso blando e farcito di pregiudizi in cui agevolmente balliamo i nostri valzer paternalisti: i nomi - anche quando fittizi per tutelare la privacy delle persone direttamente interessate - restituiscono quella umanità che tipicamente verrebbe infantilizzata o patologizzata; i luoghi e le date in cui vengono incorniciati momenti di orribile violenza di qualche serial killer e/o della polizia, così come quelli in cui le prime proteste organizzate e autogestite di sex worker ci mostrano una realtà altrimenti opacizzata da titoli sensazionalistici; le testimonianza dirette non ci danno lo spazio di tessere interpretazioni: sono le loro parole, punto. 


Una piccola digressione la dedicherei al modello svedese, il modello “nordico” che “criminalizza l’acquisto di prestazioni sessuali e punisce le terze parti (manager, autisti e padroni di casa, depenalizzando sulla carta chi vende sesso” [ibidem], perché sentiamo la puzza fino a qui, dopo che il ddl Maiorino è stato presentato al nostro governo che, in buona sostanza, rimarca questo modello (sebbene il governo in cui è stato presentato il ddl sia cambiato, fidatevi se vi dico che ne sentiremo parlare di nuovo e soprattutto prepariamoci per contrastare il peggio).

“[...]Sosteniamo semplicemente che, se si vuole ridurre la prostituzione, è necessario trovare un modo per farlo che non inasprisca la precarietà di persone già profondamente marginalizzate. Le attiviste di “stop alla domanda” scelgono a piacimento di vedere e non vedere il problema: citano la povertà come motivo principale dell’entrata delle donne nell’industria del sesso, considerandola allo stesso tempo un fattore irrilevante nelle riflessioni sull’impatto delle loro “soluzioni” politiche”.

L’obiettivo del modello nordico è di “ridurre la domanda” con la penalizzazione sia del cliente che di eventuali manager dellu sex worker si basa sulla comprensibile paura dei continui squilibri di potere all’interno della contrattazione del servizio sessuale. Questo modello giuridico basa l’intera sua progettazione sul fatto che la sex worker è sempre vittima e il cliente è sempre carnefice, dunque punendo la domanda si libera la prima dalle grinfie del secondo; come “Prostitute in rivolta” avrà modo di dimostrarci più e più volte, se solo superassimo il binomio narrativo vittima-carnefice e ci concentrassimo nel riconoscere il lavoro sessuale per quello che è - un’esigenza ‘ppe campa’ tra le opzioni scarsissime che ti ritrovi ad avere quando stai ai margini della società, né più e né meno -, capiremmo che penalizzare la domanda di una fonte di reddito non renderà la vita più facile a chi si appoggia a quella fonte. Ne va di mezzo il reddito, la sicurezza sul lavoro, la possibilità di avere una casa e di mantenere una certa autonomia. Semplice così, comprensibile per qualunque altro lavoro di merda, eppure:

“[...] I sostenitori del modello nordico hanno ragione ad affermare che il cliente beneficia di un’enorme disparità di potere; quello che mancano di considerare è che la criminalizzazione del cliente non fa che aumentare quella disparità.[...]

Io non temo il femminismo carcerario in sé, io temo il femminismo carcerario in me [semicit.]

Abbiamo fatto una veloce panoramica del contenuto all’interno di “Prostitute in rivolta”; è arrivato il momento di dare un’occhiata al contenuto dentro di noi, prima di leggere questo libro.

Ho amato queste pagine perché mi hanno messo terribilmente in difficoltà e non sempre, tra l’altro, mi è stato facile accettarlo. La dimensione digitale in cui ho collezionato tutti gli spunti di riflessione - che poi in seguito ho approfondito - mi hanno preparata a una decisa posizione ideologica solo in piccola parte, superficiale. Sì, mi ritengo una femminista sì, anticapitalista sì, anti-imperialista, sì anti razzista sì, ma fino a quale prossimo bias?


Il mito della punizione e della giustizia che passa dalle carceri è sorretto da un sistema squilibrato e coercitivo; le persone che si trovano ai margini della società, invisibilizzate, penalizzate e discriminate sono le stesse che si ritrovano contemporaneamente costrette a una vita illegale e le uniche punite per questo. Se serve appiglio per approfondire il perché dell’abolizione delle carceri e dello stato di polizia, questo libro mi ha dato una spinta, accompagnandomi con questo tema del lavoro sessuale il quale, grazie ad altre sorelle prima di me, e per vie traverse, ho sentito mio. Consiglio anche a voi, quindi, di intraprendere questa lettura sapendo di andare incontro a una messa in discussione più grande di come avreste potuto prevedere all’inizio.

Se sul corpo della/u sex worker si tessono tanti archetipi quante sono le narrazioni di cui ci nutriamo in questo colabrodo che è “l’opinione pubblica”, è proprio perché concretamente sul corpo e l’identità della/u sex worker si attraversano questioni di razzismo, di povertà salariale, di violenza di genere, di politiche dei confini, di reddito universale, di diritto alla casa, di migrazione, di tossicodipendenza, di salute ed educazione sessuale, di stigma e di pregiudizi.


“[...] In un sistema così strutturato, viene spontaneo chiedersi se e in che termini si possa parlare di scelta. Si sceglie davvero di migrare in un sistema capitalista in cui la povertà di paesi interi è funzionale alla ricchezza di altri? Si sceglie di rivolgersi a chi svolge il traffico di esseri umani quando praticamente non esistono vie legali di accesso all’Europa? Si sceglie di concedere prestazioni sessuali quando l’alternativa è essere rispedite dalla frontiera al paese di origine?[...] Farsi queste domande è necessario per capire la radice reale del sistema violento della tratta: se a operarlo sono gli sfruttatori, il mandante è la frontiera[...].”


Siamo cresciute/u/i con l’idea che punire il singolo cattivo risolva tutta la cattiveria, siamo infarcite/u/i di racconti di genere da ogni dove, l’eroe e l’antagonista e compagnia fuffante; è facile quindi cedere a quel femminismo che sovradetermina pensando di agire per il bene, illudendosi di sapere cosa sia meglio per una prostituta pur non avendo mai intrapreso mezza giornata nelle sue scarpe, soprattutto quando la controparte della disputa è il patriarcato incarnato nel pappone o nel cliente. 


Ho già capito da un pezzo che a replicare le dinamiche patriarcali ci vuole un battito di ciglia quando si tratta di sessualità, pur da sedicenti femministe; quello che mi sfuggiva profondamente era vedere la panoramica nell’insieme. Non potevo e non posso considerarmi alleata senza liberarmi di alcuni concetti liberali che contengono tutto ciò che è citato finora.


“[...] Da sex worker e da femministe, non accettiamo le frontiere e la loro imposizione come istituzioni inevitabili o immutabili. Ci stiamo battendo anche noi per un femminismo radicale che abolisca i confini, il capitalismo e l’industria del sesso senza arrecare danni alle sex worker.[...]”


Sei pronta/u/o? In alto gli ombrelli rossi: è l’ora di cambiare.

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